Quanto sarebbe più onesto arrivare in posto e ammettere di non sapere cosa dire per lasciare parlare il luogo ponendosi in suo ascolto. Ma se siamo chiamati a dire, ciò non è possibile, salvo essere presi per matti; tentare almeno di farsi voce della corrente che vi circola, questo sì è però doveroso!
Un cipresso stilita denutrito da una fame calcarea e assetato dalla tramontana torreggia a guardia del luogo.
Mi affaccio sulle forme semplici di un paesaggio essenziale, semplificato da una arte improntata alla sottrazione, quasi con una pretesa di studiato minimalismo. Quei pini, sfere di aghi verdi poggiate sul tavolato calcarenitico e a fare da vedetta un faro fotosintetico.
Qui nessun designer vi ha posto ingegno, piuttosto ci ha lavorato lo scorrere del tempo assieme a ciò che chiamiamo abbandono. Ma abbandono di che? Un termine che non mi convince affatto, quella radicata idea che mancando la presenza umana tutto volge al degrado, sprofonda, perde valore.
In questi luoghi solo lo sguardo abbassato e ricettivo coglie la vera entità e la direzione delle energie in gioco.
Regolazione più che regole, processi più che progetti.
Per capirci qualcosa bisogna piuttosto trovarsi esposti all’incomprensione, senza prescrizioni manualistiche, adattarsi alla inadeguatezza, non ingannarsi nel voler credere di conoscere.
La scientificità che non esclude la poetica e si rapporta con la filosofia (intesa come fenomenologia) consente alle scienze di essere più consapevoli dei loro limiti e più aperte a nuove e inesplorate frontiere della conoscenza. La norma può forse solo cosi evitare di sterilizzare i luoghi.