Ogni posto nuovo visitato apre nuove prospettive al bivio tra memoria e presente. È specialmente la notte a far emergere i caratteri sottili di un luogo che non si conosce bene. Quanto tutto tace e la mente si acquieta è lì che sedimentano le impressioni ed emergono i paesaggi. Poi nel chiuso delle pareti si è costretti a immaginare interpolando i segni che si è riusciti a percepire di giorno. Si forma un collage personale di conosciuto e creduto che fa di un luogo l’esperienza unica, e poco comunicabile, che è la nostra. Una volta al chiuso, oltre le pareti, è tutto un abbaiare lontano che pretende i suoi pixel nell’immagine rarefatta che si va completando.
Torna alla mente, il pino italico che emerge dalla boscaglia mediterranea, nello spazio del parco che sono venuto a mappare. Il suo ombrello vegetale che i romani diffusero nell’impero e i partenopei hanno nobilitato nelle cartoline, mi intreccia i pensieri. Non è solo confusione, è che la storia non è mai stata il mio forte.
Progettare un paesaggio è, in fondo, “mettere insieme” un posto nuovo. Seguire la morfologia, caratterizzare l’ecologia, ascoltare lo spirito del luogo, potrebbe essere sufficientemente tecnico. Ma quanto di soltanto “tecnico” può bastare ad un luogo? Ci vuole molta presunzione ad affermare che si lavori sul paesaggio senza improvvisazione. Mettere mano su un paesaggio è quindi una faccenda di arte prevalentemente estemporanea.